Da non perdere la classica e lucidissima analisi dell'amico Gaolin...
che illustra con grande competenza ed efficacia esplicativa alcuni dei cavalli di battaglia del mio Blog.
Altro che Spread! Che è solo un sintomo (terminale?...), seppur aggravante.
Se preferite, saltate questo post a piè pari...e continuate pure a tenere la testa sotto la sabbia oppure a credere alle fole che vi propinano "di lassù"...
del tipo: San Monti che avrebbe salvato l'Ita(g)lia, San Draghi che ci avrebbe fatto vedere la luce, le banche Centrali che sarebbero la ns. ancora di salvezza, etc etc etc
ITALIA: ormai è chiaro. Ha perso la sua competitività.
da intermarket&more
Gaolin: che cosa ci attende?
Fino poche settimane fa, sui media sussidiati e allineati la parola
competitività non faceva parte degli argomenti su cui si discuteva. Pare
invece che da qualche settimana l’argomento sia diventato centrale.
Alleluia, finalmente, … era ora, anche se un po’ troppo tardi. Non
nascondo ai lettori di I&M il mio disagio a dover sempre dare,
riguardo l’economia reale s’intende, un quadro del mio paese a tinte fosche.
Non riesco però a intravedere nell’attuale situazione uscite da quel tunnel in
cui, al momento dell’ingresso nessuno aveva detto che eravamo entrati.
Non riesco neppure ad avere visioni ottimistiche sul nostro
futuro, grazie ai provvedimenti di questo governo che, a onor del vero
in campo internazionale ci ha ridato una certa considerazione e un po’
di credibilità, morale almeno.
Peccato solo che questa credibilità ci costerà più cara del non averla.
In un mio post precedente, che ha riguardato La competitività economica della Germania ,
ho un po’ esaltato le virtù di questo paese. Chi ha avuto modo di
leggerlo avrà pure fatto qualche confronto con il nostro, con
particolare riguardo alla nostra classe dirigente.. Se ci concentriamo
poi sulla nostra classe politica, messa a confronto con quella tedesca,
veramente ne usciamo impietosamente e vergognosamente distrutti.
Eppure come paese non saremmo proprio ancora così mal messi se solo
avessimo la capacità di spostare il focus dei dibattiti
politici-economici, che imperversano ormai dappertutto, dal problema del
debito e dello spread a quello della crescita ma soprattutto a quello
della competitività.
Nei giorni del recente Meeting di Comunione e Liberazione, il nostro ministro per lo sviluppo Passera, nel suo intervento, ha affermato che l’Italia deve riacquistare competitività. Fra me e me ho pensato, Deo Gratias forse questa è la volta buona che si comincia ad affrontare questo tema.
Da allora, in un crescendo rossiniano, pare che la competitività,
confusa spesso con la parola crescita, sia diventato un tema centrale,
al punto che il nostro premier MONTI addirittura ha detto che questa è
più importante dello spread. Ma va!
Ma come! Dopo un anno in cui tutte le ansie erano rivolte all’andamento
dello SPREAD, adesso si viene a dire che si cambia il motivo delle
ansie?
E già!
Ormai quasi tutti, perfino gli uffici di statistica che ci mettono
almeno 12 mesi per cominciare a capire cosa veramente sta succedendo, si
stanno rendendo conto che il sistema manifatturiero-industriale
italiano è al collasso in molti settori.
E che si fa?
Si tenta di avviare un caotico dibattito su cosa e come fare per
aumentare la produttività del lavoro, per ridare competitività al paese
ITALIA, affinchè possa poi riprendere la crescita, positiva si intende,
perché nell’altro senso ormai non abbiamo niente da imparare da nessuno.
Tutti,
soprattutto, si affanneranno ad addossare ad altri le colpe di questa
situazione in cui siamo precipitati, con i politici di professione in
testa che potranno alla fine scaricare le loro responsabilità sul
governo tecnico che oggi sta sapientemente, a loro dire, dirigendo il
nostro paese.
Tutti avranno le loro ricette e le loro recriminazioni da fare sul non
fatto prima di oggi ma, da quello che ho finora capito, quasi tutti si
ostinano a non volere ammettere esplicitamente una realtà evidente come
il re nudo della famosa fiaba di Hans Christian Andersen.
L’unione europea e in particolare la moneta unica, per come è stata progettata e poi portata avanti in questo decorso decennio, è ormai da considerare un totale fallimento, una colossale fregatura, specie per l’Italia. Prima lo si ammetterà meglio sarà. Altro che irreversibilità dell’EURO.
Siccome questa è un’affermazione piuttosto forte e generalmente poco
condivisa in questo momento, cercherò di argomentarla tentando
contemporaneamente di dare il mio apporto al dibattito sulla competitività dell’ITALIA, tema di questo post.
La COMPETITIVITA’
Per competitività di un paese si può intendere quell’insieme di costi
diretti e indiretti che fanno sì che un prodotto o servizio fabbricato o
reso in quel paese sia più o meno competitivo nel mercato
globalizzato. Ovviamente, affinchè un prodotto o servizio sia
competitivo non conta solo il prezzo puro e semplice ma anche il livello
di qualità più o meno effettiva in ogni aspetto, la garanzia
sottostante, l’attrazione che suscita, il fattore estetico, il marchio,
il paese dove viene prodotto e altri fattori meno determinanti.
La globalizzazione dei mercati, favorita
dal diffondersi delle informazioni e dal bassi costi del trasporto
delle merci, specie via mare, ha permesso a paesi un tempo emarginati e
di scarso peso nell’economia mondiale di avere l’opportunità di
guadagnare in breve tempo una buona parte del tempo perduto, assumendo
un ruolo di primissimo piano, passando da quello di paesi sottosviluppati a quello di emergenti,
per arrivare al ruolo di paesi emersi in grado di distruggere le
economie reali di quei paesi che ancora oggi non riescono a rendersi
conto di cosa è già capitato e soprattutto capiterà loro se
continueranno a ignorare che il
fattore “EXCHANGE RATE” è decisivo più di qualunque altro nel determinare la competitività di una nazione.
fattore “EXCHANGE RATE” è decisivo più di qualunque altro nel determinare la competitività di una nazione.
I cinesi lo sanno benissimo e anche altri lo hanno imparato bene.
I paesi dell’occidente sviluppato, alcuni dei quali ex opulenti, altri
in via di rapido impoverimento, sono talmente concentrati sullo stato di
salute dei loro sistemi finanziari, in situazione di default più o
meno conclamato, che nel loro insieme non se ne rendono conto. Eppure
oggi constatiamo che il know-how occidentale,
attraverso la delocalizzazione produttiva, è stato dato, ovvero
trasferito, a gratis a paesi che, per la loro dimensione e per le
caratteristiche dei popoli che vi risiedono, avrebbero in breve tempo
ribaltato completamente i rapporti di forza nello scacchiere
economico mondiale.
Uno su tutti: la CINA.
Di questo paese in occidente si percepisce poco quali siano le enormi potenzialità ancora non espresse o abbastanza sviluppate.
Eppure l’immane dimensione demografica di questo paese, costituita da oltre 1.300.000.000 individui, dovrebbe inquietare non poco.
La straordinaria operosità di questo popolo, la sua capacità di porsi
nuovi ambiziosi obiettivi come nazione, la sua consapevolezza di poter
diventare in breve la nazione N° 1 al mondo, non dovrebbero essere
fattori praticamente ignorati o sottovalutati dai nostri capi
occidentali. Addirittura ogni tanto sorgono voci preoccupate se questo
paese non cresce abbastanza, magari a causa del rallentamento
dell’export, dovuto al calo dei consumi nei paesi
occidentali. Pochissimi afferrano che, alla fine, la competitività cinese altro non è stato ed è tutt’ora il frutto di una tenace quotidiana opera di mantenimento di un rapporto di cambio fra CNY e USD a
un valore che nulla ha a che vedere con il potere di acquisto in loco
delle 2 valute. Il governo cinese lo ha fatto in varie forme, un tempo comprando a go-go bond americani,
oggi per lo più acquistando all’estero asset vari, beni durevoli
e commodities di vario genere, fino a esserne strapiena oltre ogni
necessità.
Ciò ha provocato in questo ultimo ventennio un imponente trasferimento
di produzioni manifatturiere dai paesi occidentali verso la Cina e il
progressivo impoverimento del tessuto industriale di intere nazioni i
cui effetti appena adesso cominciano a manifestarsi crudamente con il
calo del benessere dei popoli occidentali. All’inizio della
Globalizzazione tutti in occidente abbiamo goduto, stando belli e zitti a
lasciare che nei paesi low-cost si lavorasse come forsennati per noi,
in condizioni spesso di vera e propria schiavitù. Adesso invece la
Globalizzazione Selvaggia sta entrando in una nuova fase e si sta
ritorcendo contro di NOI.
Questo
processo non sarà arrestato o invertito tanto facilmente come qualcuno
può pensare, tantomeno con bombe o atti di forza. Potentissime forze e
la finanza globalizzata,
con i suoi micidiali meccanismi, stanno facendo di tutto, più o meno
consapevolmente, per far sì che il fenomeno non si arresti e sembra ci
stiano riuscendo alla grande, fino all’epilogo finale che vedrà il
tracollo dell’intero sistema economico occidentale, finanza compresa.
Ma veniamo alla perdita di competitività del Sistema ITALIA
Molti, specie fra gli imprenditori, ricordano bene i tempi in cui le
fiere italiane, al contrario di oggi, erano molto frequentate da
operatori economici stranieri, i tempi in cui andare in giro per il
mondo in nome di qualche azienda italiana dava tante soddisfazioni.
Raramente uno tornava a mani vuote. Quasi sempre nuovi orizzonti di
sviluppo si aprivano per le aziende più intraprendenti che, nel tempo,
sono magari diventate leader in qualche mercato. Nessuno minimamente si
sognava di andare a cercare risparmi nei costi delocalizzando
lavorazioni o produzioni. L’Italia era un paese competitivo che dava
filo da torcere a tutti, tedeschi compresi.
Oggi non è più così per la stragrande maggioranza delle imprese
italiane, allocate solo entro i confini nazionali e inserite in settori
economici più o meno globalizzati. Pensare di fare dall’Italia
concorrenza ad imprese operanti in altri paesi è sempre più un’impresa
titanica, il più delle volte perdente in partenza.
Ma perché si è arrivati a questo punto?
Gli italiani sono diventati scemi? Hanno perso la loro inventiva o la
loro fantasia che li aveva resi famosi nel mondo? Hanno perso il
coraggio di fare impresa e di prendersi i rischi insiti negli
investimenti? Vero è che la generazione degli imprenditori rampanti, ora
60enni o di più, non è stata adeguatamente sostituita da una nuova,
altrettanto disposta a fare i sacrifici delle precedenti, che hanno
fatto il miracolo economico italiano ma ciò non spiega, se non in minima
parte, il tragico declino che l’economia reale italiana sta vivendo in
un crescendo quasi rossiniano in questi ultimi tempi.
Il fatto è che in un paese per fare impresa, che prospera con le proprie gambe e non sussidiata, è necessario che ci sia un contesto ad essa favorevole. Questo
contesto può essere più o meno favorevole in funzione della classe
dirigente che in qualche modo è riuscita a imporsi in un paese e di
conseguenza poi a favorire una o l’altra classe sociale e, all’interno
di queste, una parte piuttosto che un’altra.
Il mondo delle imprese e in generale l’economia reale, basata sulla produzione di beni, in Italia ha goduto di tante attenzioni fino a circa 15-20 anni fa. Da
parecchi anni ciò non è più vero. Siccome in queste strutture di solito
si è impegnati dalla mattina alla sera, si è costantemente sotto il
peso dei problemi che arrivano da ogni dove (clienti, fornitori,
maestranze, disguidi tecnici, ecc), insomma si lavora sul serio, vi è
stata una costante disaffezione verso questo mondo e un contemporaneo
sempre maggior interesse verso attività meno impegnative del lavorare in
fabbrica, come potrebbe essere un impiego statale o assimilabile, o
verso professioni che, a parità di impegno e capacità, danno
soddisfazioni economiche molto maggiori.
Insomma lavorare con impegno e produrre piace sempre meno e
sempre più sono coloro che preferiscono lasciare ad altri l’onere di
tirare la carretta per tutti, specie se il tirare la carretta rende meno
che a guardare chi la tira. Se poi questi guardoni diventano la
maggioranza ecco che si crea tutto un sistema in cui si legifera
per favorire i poco o nulla facenti, si creano strutture che poco
servono alla comunità ma molto agli interessi di caste e clientele che
con sempre maggiore avidità sottraggono risorse a chi lavora e produce.
Non è il caso però di andare avanti con questi discorsi perché quasi
tutti gli italiani sono molto ferrati su questi argomenti. Piuttosto è
il caso di considerare l’effetto perverso sull’economia reale che tali
comportamenti e azioni hanno sulla competitività di un paese. Non
servirebbe ribadirlo ma tutti sanno che:
se i parassiti, magari per effetto di leggi, sottraggono sempre più risorse a chi lavora e produce,
se le leggi in vigore creano sempre più difficoltà e costi alle imprese,
se la corruzione e il malaffare estendono sempre di più le loro maglie sull’economia che produce,
se non vi è una politica del governo della nazione che favorisce chi crea ricchezza vera ma il contrario
se
come governo della nazione si assumono vincoli e si stipulano patti
senza valutare bene quali saranno le conseguenze nel tempo,
la competitività di un paese, se c’era prima, viene con il tempo persa.
Una
volta che questa competitività viene persa ce ne vuole poi per
riconquistarla. Attuare comportamenti e politiche che seguano percorsi
inversi a quelli sopra descritti e che ci hanno fatto perdere la nostra
competitività, è un’impresa impossibile nel nostro paese in tempi
ragionevolmente brevi, come sarebbe necessario. Eeeh già, le altre
nazioni non stanno certo a guardare che l’Italia con comodo provveda a
rinnovarsi seguendo percorsi nuovi e virtuosi, di cui magari non è
neppure capace. In qualsiasi nazione, perfino in Cina, si parla in
modo quasi ossessivo che il paese deve fare ogni sforzo per innovarsi,
per aumentare la propria competitività.
Per fare ciò si pianificano interventi, si investono capitali enormi
perché disponibili, mentre da noi si parla, si parla ma quando si arriva
a come e dove trovare i soldi si scopre la dura verità: soldi non ce ne sono.
Con il vincolo del pareggio di bilancio,
mamma stato più che a dare deve pensare a come sottrarre ancora più
soldi a chi lavora. Chi, per sua fortuna o bravura, di soldi ne ha non è
disponibile a perderli facendo investimenti in Italia. Addirittura chi
li ha a suo tempo fatti se ne va via o chiude perché non ce la fa più. E
allora?
CONCLUSIONE
Più
che dibattere senza costrutto e accusarsi tutti l’un l’altro per ciò
che non è stato fatto negli anni o decenni trascorsi e a proporre
improbabili ricette a favore di qualche sparuta categoria o peggio
ancora clientela, bisogna amaramente ma consapevolmente ammettere che l’ITALIA ha fallito nel suo proposito di diventare un paese virtuoso. come ci era stato prospettato al momento dell’entrata nell’EURO.
Purtroppo l’ITALIA, a questo punto e con la classe politica e dirigente
che si ritrova, non ce la può fare più a competere all’interno di un
sistema economico finanziario con regole tedesche. Insomma l’ITALIA
dovrebbe pensare a come poter uscire dall’EURO con i minori danni
possibili per sé e per gli altri, se vuole avere una ragionevole
speranza di uscire dal lunghissimo tunnel in cui è entrata e riprendere,
dopo un breve calvario, la strada della crescita. L’alternativa, nella
situazione attuale, è quella che abbiamo iniziato a sperimentare,
ovvero:
Declino inarrestabile del sistema produttivo manifatturiero italiano
Aumento della disoccupazione e crescita del paese da sognare per lungo tempo
Impoverimento continuo delle famiglie, della classe media e poi anche degli altri
Collasso del welfare attuale perché insostenibile
GAOLIN
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