mercoledì 29 agosto 2012

E se i "detonatori" si celassero altrove? (oltre alla solita Grecia, alla solita Spagna, alla solita Italia etc etc...)

Durante i ritagli di tempo delle mie vacanze non riesco a produrre "contributi originali"
ma almeno posso tenervi informati sui "temi caldi"
e posso fornirvi interessanti spunti di riflessione.

Tutto il Mondo è concentrato sui PIIGS, sulla Grecia, sulla Spagna...e sull'Italia.
Ma i DETONATORI che potrebbero far "scoppiare l'Airbag" che da 4 anni le Banche Centrali stanno gonfiando per tamponare la GRANDE CRISI, potrebbero nascondersi altrove....
per esempio in Cina
e negli stessi Stati Uniti, che già innescarono la prima fase della Grande Crisi...

E per ora tralascio la marea di Bolle sparse per il Mondo,
che sono da considerarsi dei GRAVI effetti collaterali causati dalle Banche Centrali con il loro gioco d'azzardo e con il loro alzare la posta per tamponare la Grande Crisi fase-2008/2009
(Più QE nel prossimo futuro – Le banche centrali si stanno scavando una buca più profonda)
Tali Bolle non sono ancora esplose
perchè molte di esse sono diventate Bolle "Rifugio"...
per es. nei mercati immobiliari delle svariate Nazioni considerate "core", o nei t-bond, o nei bund o nei gilt etc etc
Vedi nel mio Blog:  
- Il QUIZ del giorno: "TROVA LE ANOMALIE"
- Immobiliare: dalla Bolla "speculativa" degli USA alla Bolla "rifugio" dell'Europa

 e vedi per esempio tra le Bolle ancora INESPLOSE: The Ultimate Visualization Of Australia's Housing Bubble

Gli USA ormai si credono di aleggiare in un'altra dimensione, fuori dalle tristi miserie dell'Eurozona o dalle incredibili contraddizioni del "minestrone cinese" neo-capitalista-(ex)-comunista...
ma sotto sotto (nemmeno troppo...) rimangono un DETONATORE formidabile....

o meglio...il detonatore sono sempre loro, come nel 2008-2009,
ma hanno tamponato prima&meglio di altri...comprando tempo...
e permettendo alle loro multinazionali di mettere in atto un formidabile decoupling rispetto all'inesorabile decadenza dell'economia e del tessuto sociale degli stessi Stati Uninti,
nei quali le suddette multinazionali mantengono sempre più il solo "certificato di nascita&cittadinanza"....
Fitch: a rischio rating sovrano Usa?
Nuovo “warning” da parte delle agenzie di rating agli Usa: David Riley, direttore generale di Fitch Ratings ha infatti dichiarato che per Washington è ormai necessario “risolvere la questione delle tasse e della spesa”.
Si devono “prendere decisioni e fissare un piano per ridurre deficit e debito in modo sensibile”, se si continuerà a non agire per evitare un aumento del debito, già nella prima metà del prossimo anno la “AAA”, la valutazione massima di merito di credito finora assegnata al Tesoro Usa, potrebbe essere “a rischio”.
Già lo scorso anno, va ricordato, Standard & Poor's aveva limato di un notch il rating da “Aaa” a “Aa+”, cosa mai successa prima di allora, come dire che il problema del debito sovrano non abita solo nel Sud Europa. (l.s.)
La Trappola del Debito USA
ScreenHunter 01 Aug. 29 08.48 La Trappola del Debito USA

L’immagine qui sopra è tratta dal sito http://www.usdebtclock.org/ il quale fornisce un contatore visuale del debito degli Stati Uniti d’America.

Come si può notare l’aggregato “Gross Debt to GDP RATIO” è al 104,36% e in generale questo è il numero che viene accettato nel mondo per definire il rapporto debito/PIL degli Stati Uniti.
E’ meno noto nel mondo che in realtà quel rapporto si riferisce al solo debito federale, quello contratto attraverso i famosi Treasury Bond (o Bill). In realtà se il debito americano fosse calcolato come quello italiano, cioè sommando i debiti di tutte le pubbliche amministrazioni (regioni, comuni, province) scopriremmo che il vero debito pubblico americano è del 122,8% (andate su http://www.usdebtclock.org/ e fate i conti sommando i debiti)
Il motivo per cui i debiti “locali” non vengono sommati a quello federale è perchè gli Stati Uniti NON hanno sussidiarietà interna. Se un comune fallisce sono cavoli suoi, non paga gli stipendi e smette di fornire i servizi locali fino ad una definizione della crisi. 
La mia opinione è che tale criterio non è corretto, di fatto se un grosso comune o addirittura uno Stato americano diventasse realmente insolvente esso verrebbe salvato pena la distruzione immediata di una fetta rilevante di PIL.
Detto questo, ridiamo un occhiatina ai numeri qui sopra, si legge che gli Stati Uniti ottengono dalle tasse una cifra intorno al 32% del PIL ma spendono il 43% del PIL!!!
11% di deficit anche se questa volta nel computo sono incluse anche Comuni, Contee e Stati dell’Unione.
In realtà il deficit federale viaggia intorno a soli 8 punti percentuali del PIL!!!!
La situazione è insostenibile, in prospettiva molto peggio di quella europea nel suo insieme e per certi versi peggio di quella giapponese. E’ del tutto evidente che in tempi relativamente brevi gli Stati Uniti debbano mettere mano al LORO mega deficit.
Ne abbiamo già parlato indicando il fiscal cliff come la vera bomba atomica che sta per esplodere sull’economia mondiale. Nonostante tutto il consumatore americano (ricchi compresi) è ancora un fattore fondamentale negli equilibri economici mondiali. Azzerare un deficit di oltre 8 punti percentuali porterà senza dubbio gli Stati Uniti in un periodo di recessione ma è inevitabile. La realtà è che in questi anni di crisi gli USA hanno usato il deficit per drogare oltre ogni ragionevole limite la loro economia. Sta arrivando il conto.
p.s. dedico il post ai sorcini di Krugmann, ancora sicuri che il deficit porta benessere. 

E poi la mitica mitica Cina
che da locomotiva del Mondo...
sta rivelando sempre di più le sue insanabili contraddizioni
ed il suo micidiale potenziale destabilizzante....
E se anche l’Eurozona si salvasse…
MONDAY, 27 AUGUST, 2012
Mentre attendiamo con ansia il mese di settembre per capire che faranno i tedeschi di Draghi, anche se il vigore dialettico sta rapidamente salendo a livelli di insulti di stampo italiano, può essere utile ricordare che nel mondo, oltre all’Eurozona, ci sono altre due grandi aree di potenziale crisi. 
Queste aree sono Stati Uniti e Cina.

In Cina, come sappiamo, il livello di attività manifatturiera resta in territorio negativo, come indicato dalla stima (elaborata da HSBC) dell’indice dei direttori acquisti, che in agosto è calato da 49,5 a 47,8 (ogni valore inferiore a 50 indica contrazione). Si tratta del livello minimo da nove mesi, e giunge nel mezzo della delicata transizione rappresentata dal rinnovo di sette dei nove membri del Politburo, oltre che dopo la traumatica destituzione del “mandarino” Bo Xilai, esponente populista e corrotto della “nuova sinistra” (in realtà nostalgica del maoismo e critica dello sviluppo capitalistico del paese e delle crescenti diseguaglianze che ciò provoca), e la condanna della moglie per l’omicidio di un cosiddetto “uomo d’affari” britannico.

Il governo cinese sta da tempo agendo per stimolare l’investimento infrastrutturale dei governi locali, ma si trova anche nella difficile condizione di gestire lo sgonfiamento della impressionante bolla immobiliare del paese senza causare eventi catastrofici, cioè tentando di mantenere aperti, in un modo o nell’altro, i canali creditizi che alimentano l’economia del paese.
Nel contempo, la Cina si trova ad affrontare la crisi dell’Eurozona, suo primo partner commerciale. Il minore assorbimento della produzione cinese trova inequivocabile riscontro nell’aumento della componente degli indici di attività riferiti alle scorte.
La produzione continua ad eccedere la domanda, e questo depone assai sfavorevolmente per lo sviluppo del Pil nei prossimi trimestri. Nel contempo, il mercato del lavoro mostra evidenti segni di indebolimento.


La Cina soffre ormai di un evidente eccesso di capacità produttiva, che minaccia di creare un effetto-domino fatto di deflazione (dapprima alla produzione ed in seguito al consumo) ed esplosione di crediti inesigibili nel sistema creditizio, ufficiale ed informale, con tutto quello che ne conseguirebbe in termini di mercato del lavoro e gestione delle tensioni sociali.
Gli osservatori occidentali si dicono ancora fiduciosi circa la capacità del paese di iniettare sufficiente stimolo, fiscale e monetario, tale da mantenere la crescita del Pil intorno a quel livello dell’8 per cento (rivisto dal governo in ribasso al 7,7 per cento) che servirebbe al paese per restare in traiettoria di sviluppo. La realtà è che le manovre di stimolo sembrano riprodurre, al netto delle specificità di un ossimorico paese ad “economia di mercato pianificata”, tutte le caratteristiche di quel “percorso di dannazione” visto nei paesi occidentali almeno dalla fine della bolla delle dotcom.
Non casualmente, l’indice azionario Shanghai Composite ha recentemente rivisto i minimi da febbraio 2009. L’illusionismo non paga a tempo indeterminato, evidentemente.
L’unico problema è immaginare che accadrebbe all’economia mondiale se la Cina finisse nel gorgo di una balance sheet recession come quelle che piagano ormai da un quinquennio l’Occidente.


Questo ci conduce alla seconda area di potenziale crisi, gli Stati Uniti. Pochi giorni fa il nonpartisan Congressional Budget Office (CBO) ha aggiornato le proprie previsioni sull’impatto potenziale del cosiddetto fiscal cliff, una serie automatica di tagli di spese ed inasprimenti d’imposta, di valore pari a 500 miliardi di dollari, che dovrebbe scattare dal prossimo primo gennaio. In assenza di neutralizzazione di questo evento, il CBO stima che l’effetto restrittivo sull’economia statunitense sarebbe peggiore di quanto inizialmente previsto, conducendo ad una contrazione del 2,9 per cento annuale nel primo semestre 2013, contro una frenata annualizzata dell’1,3 per cento prevista dallo stesso CBO lo scorso gennaio. Nel quarto trimestre 2013 l’economia statunitense si contrarrebbe dello 0,5 per cento annuale, con una disoccupazione al 9,1 per cento, un punto pieno sopra il livello attuale.

Il problema è che non basta pensare a neutralizzare questi tagli, che da soli riuscirebbero a portare il rapporto debito-Pil statunitense dal 73 per cento attuale (riferito al debito federale detenuto dal settore privato) al 59 per cento nel 2022, e il deficit-Pil sotto l’1 per cento nel 2016, dal poco più di 7 per cento attuale. Il paese nel dopo crisi è cresciuto a tassi piuttosto anemici, pur potendo contare sullo stimolo implicito di un rapporto deficit-Pil persistentemente elevato, oltre che su un costo del debito federale ai minimi storici di tutti i tempi, e non solo per effetto degli acquisti da parte della Fed. Il rientro del deficit dovrà comunque avvenire, pur se in modo meno violento di quanto previsto dai tagli automatici, ed il rischio di un effetto comunque depressivo sull’economia resta alto. Allo stesso modo, non sappiamo se gli investitori internazionali manterranno inalterata la propria fiducia verso un paese che continua a vivere di deficit, anche se si tratta dell’iperpotenza mondiale. Né la fiducia pare sorretta dalle mirabolanti promesse di Mitt Romney, il cui miracoloso programma di abbattimento fiscale (a vantaggio soprattutto dei percettori di redditi da capitale) finanziato da non meglio specificate ma altamente improbabili chiusure di loopholesfiscali, promette di fare esplodere l’indebitamento a stelle e strisce, nel solco della migliore tradizione bushiana.

Da questa rapida e necessariamente superficiale ricognizione appare evidente che, anche ipotizzando un “lieto fine” per l’Eurozona (che non eviterebbe comunque altri anni di crescita molto debole), nuove nubi stanno addensandosi sulla congiuntura globale.

China’s bad-debt nightmare
Not our words but Societe Generale’s, or at least their China macro strategist Wei Yao, who believes credit risk is worse than official non-performing loan data suggests....

China’s Slowdown Can no Longer be Masked by Cooked Economic Data
As yesterday’s China flash PMI numbers show, the declines in iron ore prices (discussed here) were indeed signaling an ongoing broad based slowdown in China’s economy.
Bloomberg: – China’s manufacturing may be contracting at a faster pace this month, signaling more monetary and fiscal stimulus is needed to secure a second-half rebound in economic growth.
A preliminary reading of 47.8 for a purchasing managers’ index released today by HSBC Holdings Plc (HSBA) and Markit Economics compares with July’s final 49.3 figure. If confirmed, it would be the lowest level since November and the 10th month that the reading has been below 50, the longest run in the index’s eight- year history.
This completely contradicts Goldman’s analysis of China’s manufacturing sector (discussed here). Yesterday’s survey result is indicating a decline in production, new orders, and particularly new export business.
NYTimes: – “The unexpectedly big drop more than reversed the gain seen in July,” Yao Wei, a China economist at Société Générale in Hong Kong, said in a research note. “A drop of this magnitude and a level significantly below 50 unambiguously spells trouble.”
The Chinese economy has been languishing for months, its domestic performance undermined by weakness in the important property sector and its export sector hit by sagging demand from overseas.
China’s economy is not yet able to adjust to declining orders, as the momentum driven manufacturing apparatus keeps producing in spite of slowing demand. Inventories of unsold finished goods are piling up. When the required adjustment in manufacturing finally takes place, the economic growth will decelerate further.
Source: NY Times
NY Times: - After three decades of torrid growth, China is encountering an unfamiliar problem with its newly struggling economy: a huge buildup of unsold goods that is cluttering shop floors, clogging car dealerships and filling factory warehouses.
The glut of everything from steel and household appliances to cars and apartments is hampering China’s efforts to emerge from a sharp economic slowdown. It has also produced a series of price wars and has led manufacturers to redouble efforts to export what they cannot sell at home.
The severity of China’s inventory overhang has been carefully masked by the blocking or adjusting of economic data by the Chinese government — all part of an effort to prop up confidence in the economy among business managers and investors.
In spite of these efforts to “adjust” economic data, yesterday’s PMI results, the declining raw materials prices, and the languishing stock market (below) are all signaling a growth correction that may end up rivaling that of 2009.
The Shanghai Stock Exchange Composite Index


Cina crisi: affogano nella merce invenduta
(dal Blog Petrolio)

Mentre l'emisfero occidentale, improduttivo e consumatore, si dibatte in una crisi economica senza precedenti che costringe le famiglie a stringere la cinghia e a smettere di comprare, l'emisfero orientale manifatturiero affoga nelle merci che ha prodotto e che nessuno vuole più.
Lo racconta il New York Times:
Dopo tre decadi di torrida crescita, la Cina sta incontrando un problema poco familiare per la sua economia da poco in crisi: un enorme ammucchiarsi di merce invenduta sta ingombrando i grossisti, affollando i rivenditori di auto e riempiendo i capannoni.
La gravità della situazione dell'inventario cinese, secondo il NYT, viene mascherata da trucchi contabili del governo. Stagnano le importazioni, cala l'occupazione, scendono gli immobili e fuggono i capitali.  (foto:infophoto)
In fin dei conti, le importazioni di petrolio in Cina sono calate di ben l'11% su base annua, nello scorso mese di luglio. Qualcosa vorrà pur dire. Dispiace invece per tutte quelle tonnellate di materie prime lavorate che giacciono inutilizzate nei magazzini. A montagne.
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