mercoledì 23 settembre 2015

La memoria storica e l’ascesa del sentimento anti-tedesco

La memoria storica e l’ascesa del sentimento anti-tedesco
di Roberto Orsi

In seguito ai tumultuosi eventi che hanno coinvolto Atene e Bruxelles, l’opinione pubblica europea (e non solo) si è rapidamente polarizzata come forse non accadeva da decenni.
Il tragico deterioramento delle finanze greche pubbliche e private nonché le sue inevitabili ricadute sociali e politiche hanno inasprito i toni su tutti i fronti. Numerosi commentatori, alcuni dei quali tanto autorevoli quanto distanti fra loro come Jürgen Habermas e Slavoj Žižek, hanno sottolineato che questa potrebbe essere la fine del progetto europeo, un preludio a nuove rivalità interstatali e, quindi, a possibili guerre.

La gestione della crisi greca avrebbe fatto trapelare – tanto nell’Unione Europea come organizzazione quanto nella mentalità e nei comportamenti dei leader politici – una certa mancanza di interesse per “valori chiave” quali la democrazia e la solidarietà. Questa polarizzazione deve molto ai grandi limiti della comunicazione politica del Vecchio Continente, dominata (per ragioni che esulano dagli obiettivi di questo articolo) da slogan costruiti su iper-semplificazioni e da un appeal emotivo volto a provocare reazioni impulsive.
Il governo greco è stato particolarmente attivo su questo fronte facendo ricorso all’escamotage di un referendum rapidamente imbastito allo scopo di qualificare le proprie azioni e la propria posizione come “democratiche”. In termini analitici, non è in questo caso rilevante esaminare che cosa si intenda esattamente con il termine “democrazia”. Il vero punto è un altro: di fronte a una contrapposizione così netta e schematica (Germania vs. Grecia), nel momento stesso in cui una delle due parti riesce a farsi identificare con la democrazia – termine che quasi tutti gli Europei sono stati educati a considerare sinonimo di “bene assoluto” – l’altra finisce inevitabilmente per vestire i panni del tiranno, di ciò che è “male assoluto”.

Qualsiasi tentativo di mostrare che la questione è ben più complessa e ricca di sfumature è destinato a fallire data la debolezza di più elaborate forme di comunicazione, le quali interessano una parte certamente influente, ma comunque minoritaria, della popolazione e dell’elettorato. Le stesse considerazioni valgono per il termine “solidarietà”, la cui ipotetica controparte – la tanto temuta austerità – non può che essere l’espressione di mero sadismo, avidità e altre depravazioni morali incarnate da individui sostanzialmente degenerati.

Analisi sulla situazione economico-politica greca più equilibrate e attente alle sfumature per fortuna non mancano....................


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e sono spesso arricchite da intuizioni di notevole profondità storica. Ma questi contributi non riescono comunque a scalfire la dura pelle del
behemoth manicheo purtroppo dominante.
Di fatto, non v’è nulla di particolarmente nuovo nella tendenza all’iper-semplificazione, alla trasformazione della politica in slogan e all’impiego di strategie manichee di comunicazione. Lo stesso Habermas ha dedicato alla “trasformazione strutturale della sfera pubblica” uno dei suoi primi lavori (Storia e critica dell’opinione pubblica, 1962), sviluppando idee già articolate in nuce da Max Weber.
È tuttavia il caso di sottolineare il modo in cui un risentimento del tutto legittimo nei confronti della politica europea, dei leader politici, delle loro decisioni e della loro stessa cultura politica sia stato incanalato (o abbia incanalato se stesso) in una vera e propria isteria anti-tedesca, con vaste implicazioni per il futuro politico del progetto europeo – un revival di animosità tra etnie che si supponeva appartenere ormai al passato.

Qualsiasi attento lettore della stampa avrà ormai notato la proliferazione di argomentazioni contro la Germania. Tra queste, il fatto che l’euro sarebbe un progetto tedesco che ha finito per avvantaggiare solo il paese che lo ha ideato, e la sua economia. Mentre i Tedeschi e i loro più stretti alleati si stanno arricchendo, il resto della popolazione dell’Eurozona diventa sempre più povero. In secondo luogo, l’euro è in sostanza un progetto che ha come fine ultimo il dominio della Germania sul continente – un sogno al quale i Tedeschi non avrebbero mai davvero rinunciato sin dalla fine della Seconda Guerra Mondiale e che ora sta finalmente prendendo forma: il Quarto Reich. Ancora: la Germania starebbe distruggendo l’Europa per la terza volta nell’arco di un secolo. I Tedeschi non avrebbero ancora pagato per gli errori del passato, non c’è ancora stata una vera riparazione, e mentre i loro debiti di guerra furono cancellati nel 1953 quelli della Grecia non riceveranno lo stesso trattamento di favore. Il loro comportamento, e soprattutto quello del ministro delle finanze Wolfgang Schäuble, è irresponsabile oggi come sempre lo è stato in passato.

La verità contenuta in queste tesi è assai limitata. L’euro è un’iniziativa multilaterale discussa per molti anni e approvata con il libero consenso dei (democraticamente eletti) governi coinvolti. Secondo alcune ricostruzioni storiche, l’idea di dare vita a una moneta comune europea fu patrocinata dalla Francia allo scopo di contenere e “addomesticare” una Germania riunificata all’interno dell’Unione Europea.
Le regole incorporate nel Trattato di Maastricht furono discusse e accettate come lo standard di ciò che lo storico E.H. Carr avrebbe potuto definire “moralità economica”, con il rigetto di pratiche precedentemente adottate quali la svalutazione della moneta e l’adozione di massicce dosi di dottrine economiche neo-liberal. La saggezza alla base di una costruzione del genere è certamente discutibile, ma non supporta la tesi che l’euro sia un progetto imposto dalla Germania alle altre nazioni europee.

È difficile negare che l’industria tedesca abbia prosperato (con alcune limitazioni) rispetto alle economie di altri paesi membri dell’Unione a partire dall’introduzione della moneta unica. In ampia misura, però, è una questione di contesto e prospettiva.
La storia dello sviluppo industriale tedesco è segnata dall’esportazione di prodotti di alta qualità. Il settore manifatturiero, in particolare, si è specializzato in macchinari industriali, beni di lusso e altri prodotti tecnologicamente avanzati che ancora oggi non sono immediatamente sostituibili. Per tutte le tipologie di macchinari industriali – dalla tipografia di alta qualità alla produzione del pane – i prodotti alternativi a quelli tedeschi sono pochi o inesistenti. È questo l’aspetto chiave del successo industriale della Germania. In un contesto nel quale la crescita delle economie emergenti ha ampiamente superato quella dei paesi avanzati diventando la parte preponderante dell’economia globale, non sorprende che i mercati destinatari dell’export tedesco – paesi che cercano di costruire la propria capacità produttiva e migliorare gli standard qualitativi a fronte di una crescente richiesta di beni di lusso da parte dei ceti più abbienti – siano costantemente aumentati.
Contrariamente all’idea, molto diffusa, che il grande surplus tedesco sottragga risorse finanziarie all’Euro periferia, le attività commerciali dell’Eurozona risultano essere alquanto bilanciate, mentre la maggior parte del surplus è generata dal commercio esterno a tale area. In larga misura, la popolazione tedesca non sta inoltre traendo particolari vantaggi da questa situazione: nuove forme di povertà si stanno infatti rapidamente diffondendo nel paese.

Per quanto riguarda le recriminazioni storiche e gli altri incauti confronti, è il caso di ricordare che nel 1953 la Germania era un paese occupato e diviso. È il caso di ricordare che, per quanto incalcolabili siano stati i danni prodotti dalle politiche del Terzo Reich, il paese perse circa un terzo del territorio posseduto prima della guerra, incluse moltissime città e villaggi – da Memel a Königsberg, da Danzig a Stettin e Breslau – i cui abitanti furono deportati perdendo tutto ciò che possedevano.
Altri aspetti cruciali sono di natura politica ed economica. Nel secondo dopoguerra, la ricostruzione economica dell’Europa occidentale rese necessario far ripartire rapidamente le industrie tedesche a beneficio di tutti gli altri paesi. Nel contesto della guerra fredda e della lotta al crescente movimento comunista, si trattò di una decisione che divenne presto un pilastro dell’ordine politico-economico dell’Europa atlantica.
Un secondo aspetto da considerare è che il confronto storico con la Grecia è improprio non solo perché non coglie le implicazioni strategiche e politiche sottese alla cancellazione del debito nel ’53, ma anche perché trascura un fattore molto più elementare: se anche si optasse per una remissione del debito (che dovrà necessariamente essere cancellato, in un modo o nell’altro), l’economia greca necessiterebbe immediatamente di debito addizionale per poter sopravvivere. È questa la ragione alla base dell’idea che la Grecia abbia bisogno di riforme tanto urgenti quanto draconiane.

Storicamente, la costruzione di un ordine politico europeo nel dopoguerra fu accompagnata, come sempre succede in questi casi, dal rafforzamento di alcune narrative legittimanti fondate su una certa lettura del passato. Le narrazioni storiche competono agli storici, e sono il frutto della progressiva stratificazione di revisioni, critiche, scoperte e interpretazioni delle fonti. Da una prospettiva politica, però, non tutta la storia pesa allo stesso modo. La seconda guerra macedonica (200-197 a.C.), evento di enorme impatto sulla storia mondiale, agli occhi di un europeo contemporaneo non è lontanamente rilevante quanto la Rivoluzione Francese del 1789. Questa, a sua volta, impallidisce di fronte agli eventi della prima metà del ventesimo secolo, fra tutti la seconda guerra mondiale. Non è solo un problema di prossimità temporale: vanno anche considerati i simboli che reggono l’ordine politico esistente. Da una prospettiva marxista-leninista ortodossa, come celebrata sino alla fine della guerra fredda, la Rivoluzione Russa del 1917 rappresentava l’evento decisivo nella storia dell’umanità. Dal punto di vista della politica interna statunitense, la semantica della rivoluzione del 1775-83 è probabilmente più importante di quella di qualsiasi altro conflitto, con la parziale eccezione della guerra civile (1861-65).
Per l’ordine internazionale successivo al 1945, il simbolismo legato alla seconda guerra mondiale si trova indiscutibilmente al cuore semantico dell’intera costruzione. È superfluo ricordare al lettore l’impegno profuso dai media per commemorare gli eventi di quella guerra, soprattutto in occasione del settantesimo anniversario dalla sua fine. Il progetto europeo è stato fondato sull’idea di lasciarsi il passato alle spalle per ricostruire senza dimenticare ciò che è accaduto, ma rinunciando a strumentalizzare la memoria storica soltanto per soddisfare esigenze politiche contingenti.

In questo processo, tuttavia, c’è sempre stata una contraddizione. Una tensione di fondo mai del tutto risolta si è conservata nei termini di un compromesso che ritiene inaccettabile l’egemonia tedesca in qualsiasi forma e presuppone una leadership collegiale con gli altri paesi di maggior peso e, in particolare, con la Francia.
Le dinamiche storiche contingenti stanno tuttavia riportando in superficie questa tensione sotterranea, minando alle basi un tale compromesso. I Tedeschi – anche se potrebbero non avere l’ambizione di guidare l’Europa, anche se fossero disposti a fare tutto il possibile per evitare i pericoli legati alle recriminazioni storiche e anche se non è affatto chiaro se e in quale misura Berlino possegga una qualsiasi visione politica – sono stati costretti dalla forza delle circostanze ad assumere la leadership dopo che altri paesi, Francia e Italia in particolare, sono ormai divenuti impotenti sul piano economico-politico. Come effetto, il tabù di una strumentalizzazione su larga scala delle memorie di guerra è stato infranto.

L’emergere di un’egemonia tedesca (nel significato greco di “mostrare la strada”) ha così permesso la facile costruzione di una contro-narrativa tanto semplicistica quanto efficace che non solo mobilita, come ricordato, i “valori” della democrazia e della solidarietà, ma si appropria indebitamente anche dei simboli della resistenza antifascista sui quali è fondata la costruzione europea diventando così indiscutibile, impermeabile a qualsiasi critica, inarrestabile.
L’Unione Europea si è pertanto venuta a trovare in una posizione assai scomoda: da un lato è identificata con il (malvagio) progetto dell’euro e, indirettamente, con la leadership tedesca, la sua arroganza e le sue ambizioni neo-imperialistiche. Dall’altro, deve sostenere i propri valori chiave e i propri simboli con il rischio di essere essa stessa etichettata come “organizzazione fascista” – qualcosa a fianco del quale è impossibile schierarsi, come stanno scoprendo numerosi partiti politici.

Assurda come potrebbe apparire a menti più analitiche, questa situazione avvantaggia la polarizzazione dell’opinione pubblica, obiettivo ultimo delle politiche elettorali. Ma tutto ciò avrà un prezzo. L’euro e il progetto dell’UE poggiano su un accordo sempre più fragile fra la Germania e gli altri paesi circa il modo in cui gestire gli stati periferici ormai in bancarotta. A oggi, non è chiaro per quanto tempo ancora questo accordo potrà reggere. Se i costi politici ed economici diverranno troppo alti per Berlino, in presenza di alternative geopolitiche che la crisi sta rendendo paradossalmente più evidenti (come la costituzione di un’Unione limitata al centro Europa e ai paesi baltici) la tentazione di considerare gli attuali accordi come non più validi (e convenienti) potrebbe diventare irresistibile.

In conclusione, non esistono vie d’uscita semplici da questa situazione. Idealmente, il progetto europeo dovrebbe modificare la narrazione storica sulla quale è stato fondato prendendo le distanze tanto dalla fissazione su una lettura alquanto ristretta della seconda guerra mondiale, quanto dall’atteggiamento altrimenti a-storico che lo contraddistingue (si pensi all’assenza di qualsiasi riferimento storico riconoscibile nella bandiera europea come nelle banconote dell’euro) – il tutto superando la miopia che induce i vari paesi a trascurare la dimensione collettiva in favore di un approccio individualistico.
Con tutta probabilità, un cambiamento di tale portata potrà avere luogo solo in conseguenza di eventi futuri così decisivi da sostituirsi alla seconda guerra mondiale nella memoria collettiva degli Europei.

Traduzione dall’inglese di Andrea Muzzarelli


Roberto Orsi, Ph.D in Relazioni Internazionali presso la London School of Economics, è membro della Security Studies Unit presso il Policy Alternative Research Institute e Lecturer alla Graduate School of Public Policy dell’Università di Tokyo.
twitter: @dr_roberto_orsi
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