lunedì 24 settembre 2012

ITALIA: ormai è chiaro. Ha perso la sua competitività.

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Da non perdere la classica e lucidissima analisi dell'amico Gaolin...
che illustra con grande competenza ed efficacia esplicativa alcuni dei cavalli di battaglia del mio Blog.
Altro che Spread! Che è solo un sintomo (terminale?...), seppur aggravante.

Se preferite, saltate questo post a piè pari...e continuate pure a tenere la testa sotto la sabbia oppure a credere alle fole che vi propinano "di lassù"...
del tipo: San Monti che avrebbe salvato l'Ita(g)lia, San Draghi che ci avrebbe fatto vedere la luce, le banche Centrali che sarebbero la ns. ancora di salvezza, etc etc etc
  
ITALIA: ormai è chiaro. Ha perso la sua competitività.
da intermarket&more

Gaolin: che cosa ci attende?
Fino poche settimane fa, sui media sussidiati e allineati la parola competitività non faceva parte degli argomenti su cui si discuteva. Pare invece che da qualche settimana l’argomento sia diventato centrale.
Alleluia, finalmente, … era ora, anche se un po’ troppo tardi. Non nascondo ai lettori di I&M il mio disagio a dover sempre dare, riguardo l’economia reale s’intende, un quadro del mio paese a tinte fosche.
Non riesco però a intravedere nell’attuale situazione uscite da quel tunnel in cui, al momento dell’ingresso nessuno aveva detto che eravamo entrati. Non riesco neppure ad avere visioni ottimistiche sul nostro futuro, grazie ai provvedimenti di questo governo che, a onor del vero in campo internazionale ci ha ridato una certa considerazione e un po’ di credibilità, morale almeno.
Peccato solo che questa credibilità ci costerà più cara del non averla.
In un mio post precedente, che ha riguardato La competitività economica della Germania , ho un po’ esaltato le virtù di questo paese. Chi ha avuto modo di leggerlo avrà pure fatto qualche confronto con il nostro, con particolare riguardo alla nostra classe dirigente.. Se ci concentriamo poi sulla nostra classe politica, messa a confronto con quella tedesca, veramente ne usciamo impietosamente e vergognosamente distrutti.
Eppure come paese non saremmo proprio ancora così mal messi se solo avessimo la capacità di spostare il focus dei dibattiti politici-economici, che imperversano ormai dappertutto, dal problema del debito e dello spread a quello della crescita ma soprattutto a quello della competitività.
Nei giorni del recente Meeting di Comunione e Liberazione, il nostro ministro per lo sviluppo Passera, nel suo intervento, ha affermato che l’Italia deve riacquistare competitività. Fra me e me ho pensato, Deo Gratias forse questa è la volta buona che si comincia ad affrontare questo tema.
Da allora, in un crescendo rossiniano, pare che la competitività, confusa spesso con la parola crescita, sia diventato un tema centrale, al punto che il nostro premier MONTI addirittura ha detto che questa è più importante dello spread. Ma va!
Ma come! Dopo un anno in cui tutte le ansie erano rivolte all’andamento dello SPREAD, adesso si viene a dire che si cambia il motivo delle ansie?
E già!
Ormai quasi tutti, perfino gli uffici di statistica che ci mettono almeno 12 mesi per cominciare a capire cosa veramente sta succedendo, si stanno rendendo conto che il sistema manifatturiero-industriale italiano è al collasso in molti settori.
E che si fa?
Si tenta di avviare un caotico dibattito su cosa e come fare per aumentare la produttività del lavoro, per ridare competitività al paese ITALIA, affinchè possa poi riprendere la crescita, positiva si intende, perché nell’altro senso ormai non abbiamo niente da imparare da nessuno.
Tutti, soprattutto, si affanneranno ad addossare ad altri le colpe di questa situazione in cui siamo precipitati, con i politici di professione in testa che potranno alla fine scaricare le loro responsabilità sul governo tecnico che oggi sta sapientemente, a loro dire, dirigendo il nostro paese.
Tutti avranno le loro ricette e le loro recriminazioni da fare sul non fatto prima di oggi ma, da quello che ho finora capito, quasi tutti si ostinano a non volere ammettere esplicitamente una realtà evidente come il re nudo della famosa fiaba di Hans Christian Andersen.
L’unione europea e in particolare la moneta unica, per come è stata progettata e poi portata avanti in questo decorso decennio, è ormai da considerare un totale fallimento, una colossale fregatura, specie per l’Italia. Prima lo si ammetterà meglio sarà. Altro che irreversibilità dell’EURO.
Siccome questa è un’affermazione piuttosto forte e generalmente poco condivisa in questo momento, cercherò di argomentarla tentando contemporaneamente di dare il mio apporto al dibattito sulla competitività dell’ITALIA, tema di questo post.
La COMPETITIVITA’
Per competitività di un paese si può intendere quell’insieme di costi diretti e indiretti che fanno sì che un prodotto o servizio fabbricato o reso in quel paese sia più o meno competitivo nel mercato globalizzato. Ovviamente, affinchè un prodotto o servizio sia competitivo non conta solo il prezzo puro e semplice ma anche il livello di qualità più o meno effettiva in ogni aspetto, la garanzia sottostante, l’attrazione che suscita, il fattore estetico, il marchio, il paese dove viene prodotto e altri fattori meno determinanti.
La globalizzazione dei mercati, favorita dal diffondersi delle informazioni e dal bassi costi del trasporto delle merci, specie via mare, ha permesso a paesi un tempo emarginati e di scarso peso nell’economia mondiale di avere l’opportunità di guadagnare in breve tempo una buona parte del tempo perduto, assumendo un ruolo di primissimo piano, passando da quello di paesi sottosviluppati a quello di emergenti, per arrivare al ruolo di paesi emersi in grado di distruggere le economie reali di quei paesi che ancora oggi non riescono a rendersi conto di cosa è già capitato e soprattutto capiterà loro se continueranno a ignorare che il
fattore “EXCHANGE RATE” è decisivo più di qualunque altro nel determinare la competitività di una nazione.
I cinesi lo sanno benissimo e anche altri lo hanno imparato bene.
I paesi dell’occidente sviluppato, alcuni dei quali ex opulenti, altri in via di rapido impoverimento, sono talmente concentrati sullo stato di salute dei loro sistemi finanziari, in situazione di default più o meno conclamato, che nel loro insieme non se ne rendono conto. Eppure oggi constatiamo che il know-how occidentale, attraverso la delocalizzazione produttiva, è stato dato, ovvero trasferito, a gratis a paesi che, per la loro dimensione e per le caratteristiche dei popoli che vi risiedono, avrebbero in breve tempo ribaltato completamente i rapporti di forza nello scacchiere economico mondiale.
Uno su tutti: la CINA.
Di questo paese in occidente si percepisce poco quali siano le enormi potenzialità ancora non espresse o abbastanza sviluppate.
Eppure l’immane dimensione demografica di questo paese, costituita da oltre 1.300.000.000 individui, dovrebbe inquietare non poco.
La straordinaria operosità di questo popolo, la sua capacità di porsi nuovi ambiziosi obiettivi come nazione, la sua consapevolezza di poter diventare in breve la nazione N° 1 al mondo, non dovrebbero essere fattori praticamente ignorati o sottovalutati dai nostri capi occidentali. Addirittura ogni tanto sorgono voci preoccupate se questo paese non cresce abbastanza, magari a causa del rallentamento dell’export, dovuto al calo dei consumi nei paesi occidentali. Pochissimi afferrano che, alla fine, la competitività cinese altro non è stato ed è tutt’ora il frutto di una tenace quotidiana opera di mantenimento di un rapporto di cambio fra CNY e USD a un valore che nulla ha a che vedere con il potere di acquisto in loco delle 2 valute. Il governo cinese lo ha fatto in varie forme, un tempo comprando a go-go bond americani, oggi per lo più acquistando all’estero asset vari, beni durevoli e commodities di vario genere, fino a esserne strapiena oltre ogni necessità.
Ciò ha provocato in questo ultimo ventennio un imponente trasferimento di produzioni manifatturiere dai paesi occidentali verso la Cina e il progressivo impoverimento del tessuto industriale di intere nazioni i cui effetti appena adesso cominciano a manifestarsi crudamente con il calo del benessere dei popoli occidentali. All’inizio della Globalizzazione tutti in occidente abbiamo goduto, stando belli e zitti a lasciare che nei paesi low-cost si lavorasse come forsennati per noi, in condizioni spesso di vera e propria schiavitù. Adesso invece la Globalizzazione Selvaggia sta entrando in una nuova fase e si sta ritorcendo contro di NOI.
Questo processo non sarà arrestato o invertito tanto facilmente come qualcuno può pensare, tantomeno con bombe o atti di forza. Potentissime forze e la finanza globalizzata, con i suoi micidiali meccanismi, stanno facendo di tutto, più o meno consapevolmente, per far sì che il fenomeno non si arresti e sembra ci stiano riuscendo alla grande, fino all’epilogo finale che vedrà il tracollo dell’intero sistema economico occidentale, finanza compresa.
Ma veniamo alla perdita di competitività del Sistema ITALIA
Molti, specie fra gli imprenditori, ricordano bene i tempi in cui le fiere italiane, al contrario di oggi, erano molto frequentate da operatori economici stranieri, i tempi in cui andare in giro per il mondo in nome di qualche azienda italiana dava tante soddisfazioni. Raramente uno tornava a mani vuote. Quasi sempre nuovi orizzonti di sviluppo si aprivano per le aziende più intraprendenti che, nel tempo, sono magari diventate leader in qualche mercato. Nessuno minimamente si sognava di andare a cercare risparmi nei costi delocalizzando lavorazioni o produzioni. L’Italia era un paese competitivo che dava filo da torcere a tutti, tedeschi compresi.
Oggi non è più così per la stragrande maggioranza delle imprese italiane, allocate solo entro i confini nazionali e inserite in settori economici più o meno globalizzati. Pensare di fare dall’Italia concorrenza ad imprese operanti in altri paesi è sempre più un’impresa titanica, il più delle volte perdente in partenza.
Ma perché si è arrivati a questo punto?
Gli italiani sono diventati scemi? Hanno perso la loro inventiva o la loro fantasia che li aveva resi famosi nel mondo? Hanno perso il coraggio di fare impresa e di prendersi i rischi insiti negli investimenti? Vero è che la generazione degli imprenditori rampanti, ora 60enni o di più, non è stata adeguatamente sostituita da una nuova, altrettanto disposta a fare i sacrifici delle precedenti, che hanno fatto il miracolo economico italiano ma ciò non spiega, se non in minima parte, il tragico declino che l’economia reale italiana sta vivendo in un crescendo quasi rossiniano in questi ultimi tempi.
Il fatto è che in un paese per fare impresa, che prospera con le proprie gambe e non sussidiata, è necessario che ci sia un contesto ad essa favorevole. Questo contesto può essere più o meno favorevole in funzione della classe dirigente che in qualche modo è riuscita a imporsi in un paese e di conseguenza poi a favorire una o l’altra classe sociale e, all’interno di queste, una parte piuttosto che un’altra.
Il mondo delle imprese e in generale l’economia reale, basata sulla produzione di beni, in Italia ha goduto di tante attenzioni fino a circa 15-20 anni fa. Da parecchi anni ciò non è più vero. Siccome in queste strutture di solito si è impegnati dalla mattina alla sera, si è costantemente sotto il peso dei problemi che arrivano da ogni dove (clienti, fornitori, maestranze, disguidi tecnici, ecc), insomma si lavora sul serio, vi è stata una costante disaffezione verso questo mondo e un contemporaneo sempre maggior interesse verso attività meno impegnative del lavorare in fabbrica, come potrebbe essere un impiego statale o assimilabile, o verso professioni che, a parità di impegno e capacità, danno soddisfazioni economiche molto maggiori.
Insomma lavorare con impegno e produrre piace sempre meno e sempre più sono coloro che preferiscono lasciare ad altri l’onere di tirare la carretta per tutti, specie se il tirare la carretta rende meno che a guardare chi la tira. Se poi questi guardoni diventano la maggioranza ecco che si crea tutto un sistema in cui si legifera per favorire i poco o nulla facenti, si creano strutture che poco servono alla comunità ma molto agli interessi di caste e clientele che con sempre maggiore avidità sottraggono risorse a chi lavora e produce.
Non è il caso però di andare avanti con questi discorsi perché quasi tutti gli italiani sono molto ferrati su questi argomenti. Piuttosto è il caso di considerare l’effetto perverso sull’economia reale che tali comportamenti e azioni hanno sulla competitività di un paese. Non servirebbe ribadirlo ma tutti sanno che:
se i parassiti, magari per effetto di leggi, sottraggono sempre più risorse a chi lavora e produce,
se le leggi in vigore creano sempre più difficoltà e costi alle imprese,
se la corruzione e il malaffare estendono sempre di più le loro maglie sull’economia che produce,
se non vi è una politica del governo della nazione che favorisce chi crea ricchezza vera ma il contrario
se come governo della nazione si assumono vincoli e si stipulano patti senza valutare bene quali saranno le conseguenze nel tempo,
la competitività di un paese, se c’era prima, viene con il tempo persa.
Una volta che questa competitività viene persa ce ne vuole poi per riconquistarla. Attuare comportamenti e politiche che seguano percorsi inversi a quelli sopra descritti e che ci hanno fatto perdere la nostra competitività, è un’impresa impossibile nel nostro paese in tempi ragionevolmente brevi, come sarebbe necessario. Eeeh già, le altre nazioni non stanno certo a guardare che l’Italia con comodo provveda a rinnovarsi seguendo percorsi nuovi e virtuosi, di cui magari non è neppure capace. In qualsiasi nazione, perfino in Cina, si parla in modo quasi ossessivo che il paese deve fare ogni sforzo per innovarsi, per aumentare la propria competitività.
Per fare ciò si pianificano interventi, si investono capitali enormi perché disponibili, mentre da noi si parla, si parla ma quando si arriva a come e dove trovare i soldi si scopre la dura verità: soldi non ce ne sono.
Con il vincolo del pareggio di bilancio, mamma stato più che a dare deve pensare a come sottrarre ancora più soldi a chi lavora. Chi, per sua fortuna o bravura, di soldi ne ha non è disponibile a perderli facendo investimenti in Italia. Addirittura chi li ha a suo tempo fatti se ne va via o chiude perché non ce la fa più. E allora?
CONCLUSIONE
Più che dibattere senza costrutto e accusarsi tutti l’un l’altro per ciò che non è stato fatto negli anni o decenni trascorsi e a proporre improbabili ricette a favore di qualche sparuta categoria o peggio ancora clientela, bisogna amaramente ma consapevolmente ammettere che l’ITALIA ha fallito nel suo proposito di diventare un paese virtuoso. come ci era stato prospettato al momento dell’entrata nell’EURO.
Purtroppo l’ITALIA, a questo punto e con la classe politica e dirigente che si ritrova, non ce la può fare più a competere all’interno di un sistema economico finanziario con regole tedesche. Insomma l’ITALIA dovrebbe pensare a come poter uscire dall’EURO con i minori danni possibili per sé e per gli altri, se vuole avere una ragionevole speranza di uscire dal lunghissimo tunnel in cui è entrata e riprendere, dopo un breve calvario, la strada della crescita. L’alternativa, nella situazione attuale, è quella che abbiamo iniziato a sperimentare, ovvero:
Declino inarrestabile del sistema produttivo manifatturiero italiano
Aumento della disoccupazione e crescita del paese da sognare per lungo tempo
Impoverimento continuo delle famiglie, della classe media e poi anche degli altri
Collasso del welfare attuale perché insostenibile
GAOLIN
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